Il “nuovo” conflitto di interessi degli amministratori alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali

1. Tribunale di Milano sentenza numero 2762/2020: Il “nuovo” conflitto di interessi degli amministratori delle società di capitali alla luce della recente sentenza numero 2762/2020 del Tribunale di Milano

La riforma del diritto societario intervenuta con il Decreto Legislativo 6/2003 ha modificato, tra l’altro, l’articolo 2391 del Codice Civile “Interessi degli amministratori” che al primo comma  impone in capo agli amministratori delle società per azioni di “dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata”.

Il secondo comma dell’articolo 2391 c.c. prevede inoltre che le delibere relative ad operazioni in cui uno dei membri del Consiglio di Amministrazione abbia un “interesse” debbano essere adeguatamente motivate in termini di ragioni e convenienza da parte del Consiglio di Amministrazione stesso.

Nei casi di inosservanza a quanto sopra ovvero nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell’amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla data della delibera.

Come già intuibile dalla rubrica del “nuovo” articolo 2391 del Codice Civile che, eliminando il riferimento testuale al conflitto dell’interesse di cui sia portatore l’amministratore, ha modificato radicalmente il presupposto per l’applicabilità della disciplina, l’amministratore, dunque, rientra nella disciplina in esame per il solo fatto di avere un interesse nell’operazione, indipendentemente dal fatto che tale proprio interesse sia in conflitto con quello della società stessa o meno, emergendo così con evidenza la prima differenza portata sul tema dalla riforma del 2003 prima della quale, infatti, l’unica fattispecie che acquisiva rilievo era il conflitto di interessi e cioè che l’amministratore fosse portatore di un interesse personale contrastante con quello della società.

Pertanto il Legislatore ha inteso da un lato, privilegiare la “trasparenza” in ogni ipotesi in cui un amministratore abbia, per conto proprio o altrui, un interesse in una determinata operazione (trasparenza, quindi, doverosa anche se vi sia coincidenza tra l’interesse sociale e quello dell’amministratore e perfino se l’amministratore privilegi l’interesse della società a danno del proprio) e, dall’altro lato, facilitare la possibilità deliberativa del consiglio che, una volta manifestato con trasparenza quale sia l’interesse dell’amministratore, per conto proprio o altrui, in una determinata operazione, si trova ora in una posizione di simmetria informativa, e tutti i consiglieri potranno quindi “motivatamente” esprimere il proprio voto.

Posto che la nuova formulazione dell’articolo 2391 non si riferisce al “conflitto”, bensì all’”interesse” – diretto o indiretto – dell’amministratore che si configura qualora dal compimento di una data operazione, questi (per sé o per un terzo) possa ricavare una utilità, non solo di natura patrimoniale e non per forza contraria all’interesse sociale, il fine perseguito dal Legislatore pare muovere dall’assunto che gli amministratori esplichino le loro funzioni sulla base di una relazione di natura fiduciaria che li lega alla collettività dei soci per il tramite della società e che, dunque, nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni, non possono avere altro obbiettivo che non sia l’interesse della società.

Se l’amministratore è titolare di un interesse proprio o di terzi che è suscettibile di entrare in gioco nell’esercizio della funzione gestoria, l’amministratore non deve preoccuparsi di individuare se l’interesse della società ed il proprio (o del terzo) siano in “effettivamente e dannosamente” in conflitto, ma deve semplicemente dichiarare il proprio interesse in maniera circostanziata e precisa (cosiddetta “disclosure”), avendo inoltre cura di astenersi per non incorrere in nessuna responsabilità. È onere degli altri amministratori non portatori di altro interesse che non sia quello sociale, poi, valutare la situazione e adottare una deliberazione motivata che esplicitamente individui le ragioni per cui l’operazione deve ritenersi conforme all’interesse della società.

Come sopra accennato, un’altra importante differenza con la fattispecie ante-riforma risiede nel dovere di motivazione introdotto dalla riforma del 2003; infatti fino al 2003 all’amministratore, una volta informato il consiglio del proprio “conflitto”, era sufficiente astenersi dalla relativa votazione mentre con la riforma è avvenuto un mutamento del fulcro della cautela che si è spostato dall’obbligo di astensione a quello di informazione (effettiva) e di motivazione con conseguente automatica corresponsabilizzazione degli amministratori.

Tale obbligo di motivazione è, dunque, il punto centrale del mutamento rispetto alla precedente disciplina. Se prima, infatti, la “soluzione” alla posizione di conflitto risiedeva nella semplice procedura formale individuabile nell’astensione, ora gli altri amministratori (i.e. quelli non portatori di altro interesse che non sia quello sociale) devono provare una spiegazione accettabile ed adeguata di come, nonostante l’interesse dell’amministratore, l’atto presenti comunque le caratteristiche di utilità, funzionalità e convenienza per la società.

La soluzione al conflitto che deve essere operata dagli amministratori, pertanto, da formale è diventata ora sostanziale ed essenziale e, seppur in assenza di un intervento chiarificatore da parte del Legislatore volto a definire la portata di tale obbligo di motivazione ed i contenuti dello stesso, pare evidente che la ratio di tale novità risieda nella logica di garantire la totale trasparenza dell’operato dell’organo gestorio in relazione ad una decisione “critica” a causa dell’esistenza dell’interesse particolare di un membro del consiglio.

La criticità e l’importanza della decisione ai fini dell’attività della società ricopriranno poi un ruolo determinante ai fini dell’analiticità, del dettaglio e del grado di completezza che dovrà presentare la motivazione della deliberazione al fine di essere ritenuta accettabile ed adeguata, essendo inteso che tale potrà essere considerata la motivazione che consenta a posteriori di ricostruire il processo logico di valutazione operato dal consiglio ai fini della valutazione della deliberazione della operazione in questione.

2. L’amministratore della società che esercita attività di direzione e coordinamento

Particolarmente complessa è l’analisi riguardante la responsabilità dell’amministratore che sia portatore di interessi di altra società facente parte dello stesso gruppo, ed in particolare di interessi della capogruppo.

A tale riguardo e al fine di inquadrare l’attuale orientamento, sia dottrinale, sia giurisprudenziale, assume importanza la recente sentenza del Tribunale di Milano (numero 2762/2020) in commento che ha stabilito la responsabilità degli amministratori di una società “capogruppo” i quali, votando la deliberazione approvata all’unanimità dei presenti, o semplicemente non presenziando, non hanno adempiuto:

  • al dovere di ottenere dall’amministratore che aveva un interesse nell’operazione la piena disclosure, ex articolo 2391 del Codice Civile;
  • al dovere di ottenere una motivazione della decisione influenza esaustiva ai sensi dell’articolo 2497ter del Codice Civile.

La decisione in esame concerne il vaglio della responsabilità da abuso nell’esercizio di attività di direzione e coordinamento che, senza entrare nello specifico di detto istituto, si desume da due norme:

  • (i) l’articolo 2497 comma primo del Codice Civile, nella parte in cui considera come parametro di legalità delle scelte direttive della controllante la “correttezza” della gestione imprenditoriale e societarie della società eterodiretta; e
  • (ii) l’articolo 2497ter in cui è esplicito il riferimento all’indicazione, da parte degli amministratori, delle “ragioni ed interessi” che hanno assunto un ruolo determinante sulle decisioni della società controllata influenzate dalla capogruppo.

Ciò che il Tribunale ha sanzionato, dunque, è sia un conflitto di interessi non dichiarato da parte dell’amministratore, sia una decisione presa dal consiglio senza che siano state date (e dimostrate) dal consiglio stesso le motivazioni per cui l’operazione soddisfaceva i requisiti previsti dalla legge in termini di opportunità, correttezza e ragionevolezza.

Una breve parentesi merita in questa sede la Business judgment rule eccepita dagli amministratori della capogruppo e solo parzialmente accolta dal Tribunale di Milano. Tale regola, di derivazione anglosassone ma affermatasi da tempo anche nel nostro ordinamento, prevede che talune operazioni e scelte intraprese negli amministratori, in quanto poste in essere nell’esercizio di una discrezionalità gestoria, non possano essere sindacabili in sede giudiziaria. La dottrina prevalente ha indicato tuttavia che tale “scudo” non trova applicazione nelle azioni di responsabilità derivanti dalla violazione dei doveri posti a prevenzione del conflitto di interessi, in quanto in tali casi l’intervento del giudice non si limita alla verifica delle procedure necessarie all’adozione della delibera, ma deve altresì vagliare il merito delle operazioni medesime.

La sentenza citata evidenza come il Tribunale, infatti, abbia ritenuto necessario distinguere tra (i) la valutazione della negligenza nell’operato degli amministratori e (ii) la valutazione nel merito gestorio, segnando così un confine chiaro tra discrezionalità non sindacabile e operazioni generative di responsabilità.

Alla luce di ciò, si registrano dunque due limiti verificabili in sede giudiziale:

  • (i) uno procedurale, riscontrabile nella diligenza dell’amministratore nel procurarsi tutte le informazioni necessarie per decidere; e
  • (ii) uno contenutistico, da valutare caso per caso, riscontrabile nell’arbitrarietà e irrazionalità delle scelte compiute.

I casi in cui la Business judgment rule subisce un “affievolimento assai significativo” sono tutti relativi a situazioni di conflitto di interesse o operazioni con parti correlate in quanto, mentre operando sul mercato con parti terze, l’interesse della società è salvaguardato dal fatto che gli amministratori non hanno motivo a contrattare a condizioni sfavorevoli, l’interesse degli amministratori nell’operazione “pone in dubbio in radice l’adempimento del loro dovere di fedeltà verso la società e richiama la necessità di un controllo di merito da parte del giudice”, al quale è devoluto, appunto, il compito di verificare l’allineamento dell’operazione alle condizioni del mercato.

3. Conseguenza alla violazione

Fermo restando quanto sopra detto in merito al safe harbour costituito, nel nostro ordinamento, dall’insindacabilità ex post delle scelte gestionali in base alla sopra citata Business judgment rule, in caso di rispetto della normativa esaminata da parte dell’amministratore interessato e da parte del consiglio che provvede a deliberare, con adeguata motivazione, l’operazione in oggetto, nessuna responsabilità potrà essere imputata in capo all’amministratore “interessato” né in capo agli altri membri del consiglio di amministrazione, neppure qualora l’operazione si riveli ex post dannosa per la società.

Le conseguenze riconducibili alla mancata osservanza del disposto dell’articolo 2391 del Codice Civile, si possono riassumere come segue:

  1. in primo luogo, davanti ad una condotta inadempiente dell’amministratore, la società potrà procedere alla revoca dello stesso ai sensi dell’articolo 2383 del Codice Civile, a prescindere da ogni valutazione circa l’impugnabilità della delibera o alla sua potenziale dannosità;
  2. la delibera assunta in violazione delle norme potrà essere oggetto di impugnazione, entro novanta giorni, per la sua declaratoria di invalidità su istanza degli amministratori assenti o dissenzienti – ma anche di quelli assenzienti solo nel caso in cui sia stato violato l’obbligo di disclosure – e del collegio sindacale al fine di eliminare il potenziale danno; e
  3. la condotta inadempiente, sia commissiva che omissiva, degli amministratori potrà essere fonte di responsabilità per i danni subìti dalla società e non più solo per le perdite. L’amministratore, infatti, potrà essere chiamato a rispondere delle sue azioni od omissioni qualora sussista un danno per la società, un pregiudizio derivante dall’operazione, e tale danno – comprensivo sia del lucro cessante sia del danno emergente – dovrà essere dovrà soddisfare il requisito del nesso di causalità con la condotta inadempiente dell’amministratore.
Avv. Pier Luigi Morara
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